sabato 14 settembre 2013

Poesie di Claudio Damiani a cura di Marco Lodoli - Recensione di Valentino Fossati



È uscita a settembre, presso Fazi, Poesie, un ampia raccolta di testi di Claudio Damiani, ottimamente curata e presentata dal compagno di strada Marco Lodoli, dall'esordio di Fraturno (1987) a Sognando Li Po (2008) con una sezione dell'inedito Il fico sulla fortezza.


L'opera di Damiani rappresenta il bellissimo esempio di una poesia che non fonda la sua intima aspirazione ad una nuova classicità che dica la vita, il tempo, le cose – e che stabilisca una durata di fronte e oltre le cose stesse – sull'idea di un 'inferno' inteso come buio e abbassamento esistenziale, come lacerazione interiore e come nevrosi o sull'idea di un nulla soggiacente alla realtà. Da Baudelaire a Montale, ma anche a Sereni e a Zanzotto e ancora oltre, tanta poesia, anche tra la più grande, è fiorita su presupposti, quando non apertamente nichilistici, legati comunque a quel “minimo di tollerabilità del vivere” di cui ha parlato Contini in modo paradigmatico proprio a proposito di Montale, e ha fatto molta strada anche tra poeti della generazione immediatamente precedente quella di Damiani che, al contrario, cerca e trova il suo baricentro in una basilare fiducia nella bontà dell'essere. 


In prima istanza Damiani sceglie un paesaggio, un suo paesaggio da cui la sua poesia può cominciare a germogliare e crescere proprio come un albero (presenza emblematica in molti testi che dice vita, tempo, stagioni, radici, paternità e figliolanza, nutrimento della vita fisica e spirituale che non può non giungere che dalla terra, dal basso). Il poeta sceglie di riempirlo delle sue cure e della sua fedeltà, di plasmare su di lui e su ciò che lo abita i suoi versi, come creature che proprio da lui nascono e trovano sempre più autonomia, una forza crescente. “Fraturno / tu le tenere / canne che le tue rive / mute cingono crescere / vedi, la viola timida / spuntare tra l'erbetta, / gli alberi intorno mettere / la veste a primavere / e levarsela il verno, / e i fanciulli festosi / da Percìle o Licenza / con le camere d'aria / scherzare alle tue rive / finché dura la luce”: ci sarà il piccolo lago Fraturno tra i monti della Sabina, luogo di elezione e quasi di iniziazione ad una visione-madre che è la vita nel suo essere un darsi incessante, benevolo e gratuito, nel senso anche della grazia che feconda la poesia. Ci sarà la casa, dimora perduta e ritrovata, osservatorio privilegiato. Ci saranno i paesaggi, apparentemente più astratti, di Sognando Li Po dove Damiani, usando appunto la 'maschera' poetica dei maggiori lirici classici cinesi, riesce ad entrare in contatto e a farci entrare in contatto con la visione dei suoi luoghi più intimi e antichi, diventata così visione assoluta. Il riconoscimento-scelta di un luogo, o meglio di un primo luogo, è già riconoscimento di un destino, di un cammino e di una strada che coincidono con la presa di contato con il proprio essere: “Camminare sulla tua via, / o sei tu, sentiero, che cammini dentro di me, / o sei tu la creatura / e io un cammino, una via”. E rappresenta, inoltre, un primo recupero della dimensione dell'interezza. Damiani spesso chiama questi luoghi e le sue creature, li apostrofa, con tratti stilistici che affondano nell'antico, ma anche nel quotidiano e così reagendo illuminano l'attimo presente e totale. Questo cammino parte appunto dalla coscienza della bontà dell'essere rispetto al non-essere (ma il prima della nascita e il dopo la morte non sono dati come non-essere, piuttosto come continuità rispetto ad un unico e buono disegno di interezza) e nasce proprio qui la necessità di custodire questa presa di coscienza e farla essere tutt'uno con la storia e il farsi di una poesia. Roberto Galaverni ha scritto bene di Damiani poeta “giardiniere”, così come Damiani è poeta “custode”, custode di un bene a volte pur fragile, ma certo. Custode della memoria di chi vive, di chi non vive più ma ha dato vita, di chi non conosceremo, ma che comunque è legato a noi da una dimensione della totalità che affratella vivi e morti, uomini vicini e uomini lontani. Il poeta, già con Fraturno incomincia il suo cammino interiore e poetico intuendo questo sigillo di totalità nei legami con la terra, gli animali, la vegetazione di un paesaggio, in un legame d'amore esclusivo (che talvolta ha i tratti concreti e assoluti al tempo stesso di un Cantico dei Cantici) e questo cammino si sviluppa nella sempre più acuta percezione del cosmo come relazione. Ne è emblema la relazione tra genitore e figli che rispecchia quella fraterna tra tutti gli esseri umani e gli elementi del creato. Ed è proprio nella relazione più profonda che si dà l'interezza: “Posso guardarvi nella vostra bellezza di visi quieti, / come quando guardo Domitilla, quando la prendo in braccio / e sento la sua bellezza intera adiacente a me / di bambina già grande, di ragazza, / di donna anziana, di anima perfettamente intera / che non muore più.”.

“Se potessi cercarti / per poterti ritrovare, / per poterti dopo tante ricerche, / dopo tanto cercare / come dopo una guerra / finalmente riabbracciare.”. Così si conclude una bella lirica de La miniera. Il tanto cercare dà compimento e ricchezza al ritrovo e qui si innesta il filo rosso di una quête privata, ma dai risvolti antropologici, dalla ricerca delle origini all'interrogazione, mediata non a caso dalle figure dei figli fanciulli, sul destino oltre la morte, presentata non in termini angosciosi e regressivi, ma in termini di adulta accettazione. La spiritualità di Damiani, nell'arco della sua produzione si polarizza, per poi trovare sintesi sempre più mature (dal punto di vista stilistico, ma anche psicologico) tra una spiritualità per così dire 'bambina' che può apparire acerba e apparentemente arcaica e una spiritualità che in realtà è evoluta, adulta, tale proprio perché maturata attraverso lo sguardo 'aperto' dei figli ancora bambini (alcune poesie di Damiani sono canti della paternità di grande levatura); una spiritualità che dall'innocenza dello sguardo giunge ad una fortissima, e fondativa, tensione verso la verità, il bene e la giustizia. La poesia di Damiani è profondamente etica (così come ogni vera poesia nasce da un atto etico) e in questo senso la ricerca del poeta trova punti di orientamento sicuri, indubitabili per giungere a ritrovare, come respiro della vita e della poesia, una costante di crescente ordine, che è concetto del bene, promessa appunto di gioia e di giustizia. C'è lo stupore per l' “ordine incredibile”. Può entrare la sofferenza “in questa quiete”, si può anche “sanguinare” e “tuttavia restare, restare fermo seduto / asciandomi trasportare”. Lo stupore per la vita e per il silenzio nella contemplazione del bene che essa perentoriamente è, è più forte del male che l'uomo ha la libertà di procurare a se stesso e alle creature sue simili, più forte di guerre e distruzioni.


Lodoli, nella sua antologizzazione, cerca di equilibrare i testi, si potrebbe dire, di maggior compattezza lirica con testi caratterizzati da maggiori, ma sempre dotate di grande levitas, incrinature, da più forti dislocazioni metriche, al limite della prosa in versi, talvolta con inserti di dialogato (si vedano alcuni esiti felici in questa direzione in Eroi), poesie che spesso sembrano modellarsi “in un tempo tardo, dopo che è successo tutto”, ma dove comunque “è tutto così fresco” e dove spesso, come una tensione alla consolazione e alla purificazione, s'insinua il desiderio di essere in una comunione totale, protettiva, con le cose intorno, magari nel ritmo lento di un sonno pacificatore: “vorresti abbandonarti al cinguettio degli uccelli, / vorresti addormentarti nell'ombra”, come già Sandro Penna “nel dolce rumore della vita”. E come Penna, rifacendomi ad un'acuta riflessione di Garboli, Damiani sa quello che desidera, dove vuole andare, afferma la sua individualità e la ricerca di se stesso “in contrasto con la grande e vincente formula montaliana di negatività”.


Damiani non ha paura di guardare in volto la vita così come si dà, di farla danzare anche (o soprattutto) nel presentimento della morte, di dare, virgilianamente, ombra alla luce e luce all'ombra scrivendo con candida evidenza, con una purezza di intonazione che specie nei primi esiti del suo lavoro appare esporsi con una lieve e febbrile sprezzatura, talvolta anche con un'apparente noncuranza e possiede anche un forte potenziale provocatorio. Il poeta non ha paura di comporre il suo canto con “fiori di mille colori”, con “ippopotami dolci”, con una “gita alla stalla” o con la “brezza che accarezza”, con le domande di un bambino (e sue: “Giovanni, in cielo, ti rivedrò / o non ti rivedrò?”) sulla morte e sul cielo dove tutti “certamente ci ritroveremo”, “anche se non si sa bene in che modo, / anche se non si sa bene, non importa”.


La poesia di Damiani diventa gioia anche nelle sue interrogazioni più radicali, quella gioia di cui proprio la poesia può essere seme, gioia non ignara delle ombre che, sempre col Virgilio bucolico, “maioresque cadunt altis de montibus”, ma che si nutre di un momento iniziale, di euforia e che diviene, sedimentandosi nella tensione, acquisizione e conquista e ha il suo equivalente in una progressiva padronanza del proprio verso, della propria musica, ma donata alla natura e ad ogni essere come gesto grato, solidale e fraterno.




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